“Credo tu faccia troppe ore di lavoro, ti vedo stanco. È normale che ti facciano lavorare così?”
Ti è mai capitato di sentire una frase del genere? Sei un tipo che fa del lavoro una missione o invece ritieni ci debba essere un certo distacco?
Molti si limitano a liquidare la questione con un secco: lavori per vivere o vivi per lavorare?
In realtà, la situazione è molto più complessa, ed esistono tra questi due estremi un’infinità di sfaccettature, che non sono necessariamente giuste o sbagliate. In fondo, viviamo nell’epoca dei workaholic!
Quando le ore di lavoro diventano troppe? L’indagine dell’OCSE e la religione del lavoro
C’è un momento, nella propria vita, in cui per un motivo o per un altro ci si ferma a riflettere su quello che stiamo facendo e se c’è qualcosa che non ci soddisfa e che vorremmo cambiare. Sono momenti rari, poiché molto spesso siamo coinvolti nel vortice degli impegni tanto da non avere il tempo di fermarci un attimo e pensare.
La routine quotidiana, fatta di 8 ore in ufficio, figli, impegni extrascolastici, hobby, famiglie e amici è in grado di fagocitarci e farci impostare il “navigatore automatico”, un po’ come succede nel film Cambia la tua vita con un click.
L’indagine dell’OCSE
L’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE, in inglese OECD) pubblica ogni anno un report relativo alle ore di lavoro eseguite in tutto il mondo, creando una sorta di classifica dei paesi “fannulloni” e di quelli, al contrario, troppo lavoratori.
Se l’impressione generale, in Italia, è che si lavori troppo, i dati sembrano smentire questa convinzione. Il Bel Paese si trova infatti soltanto 17° nella classifica, dietro Paesi del tutto inaspettati, con una media di 33 ore settimanali e 1730 ore di lavoro l’anno.
Innanzitutto c’è da notare la prima posizione del Messico, un Paese che è sempre stato additato come “il popolo della siesta”, seguito dal Costa Rica.
Nessuna sorpresa, invece, per il terzo posto, che spetta alla Corea del Sud. L’estremo oriente, sin dall’inizio del fenomeno di occidentalizzazione, ha creato una classe di lavoratori talmente ligi al dovere che spesso devono essere costretti dai loro capi a prendere ferie. Purtroppo, però, si registra anche un fenomeno inquietante, che è quello dei suicidi per lavoro.
La media dei paesi appartenenti all’OCSE è in 14° posizione, svelando così che, in media, facciamo meno ore di lavoro rispetto ai nostri colleghi.
Altri dati degni di rilievo sono quelli relativi ai paesi che lavorano meno di noi: Giappone, UK, Francia, ma soprattutto Germania, che colleziona l’ultimo posto in quanto a ore di lavoro.
Quindi, c’è troppo lavoro o invece troppo poco? Qual è il giusto metro di giudizio?
Quantità non è uguale a qualità
La prima conclusione da trarre da questa indagine è che la classifica non riguarda paesi lavoratori e fannulloni. Sembra infatti difficile da credere che negli uffici dei paesi come la Germania e il Giappone ci siano persone che aspettano le 18 per timbrare il cartellino.
Molto più probabile è che ci siano effettivamente meno ore di lavoro, ma che si lavori meglio. Questa teoria era in effetti già stata formulata da diversi studi. Il restare fino a tardi in ufficio significa che sei migliore rispetto agli altri, o piuttosto che ci sia qualche problema di organizzazione?
Certo, ci sono sempre i casi in cui ci viene assegnato un carico totalmente insostenibile, ma in linea generale, lavorare troppo, essere workaholic, non è cool, anzi.
Politiche come orari di lavoro flessibili e lo smartworking, che spopolano in quei paesi, potrebbero forse aiutarci a migliorare la nostra produttività e quindi a raggiungere lo stesso risultato ma con meno ore di lavoro.
Un’altra motivazione relativa alla diversità delle ore di lavoro è il fattore tecnologia. Già menti come Keynes avevano teorizzato che, con l’avvento di tecnologie sempre nuove, parte della “fatica” sarebbe stata svolta dalle macchine le ore di lavoro sarebbero quindi diminuite.
Certo, l’automatizzazione di molti processi sembra confermare questa previsione, che però resta limitata al lavoro manuale: nei grattacieli e nei piccoli uffici, i lavoratori continuano a passare intere giornate alla scrivania.
Il lavoresimo
Ma torniamo in Italia dove, abbiamo detto, la situazione non è delle più rosee. Un’indagine condotta in America e facilmente applicabile anche in Italia ha fatto emergere un altro dato interessante: ai laureati con un reddito alto lavorare meno non interessa.
Nei piani alti degli uffici sembra infatti vigere un senso del dovere quasi religioso, che impone non tanto di fare sempre del proprio meglio nelle ore di lavoro (comprensibilissimo) ma di votare la propria vita ad esso (ben diverso).
Un giornalista americano ha ben descritto questo fenomeno con il termine workism, che potremo grossolanamente tradurre come lavoresimo: una vera e propria religione del lavoro.
Il lavoro, però, non è un Dio che resta dietro le quinte, senza rispondere e senza farsi sentire. Anzi: c’è, è presente e risponde, più che alle nostre preghiere, alle oscillazioni dei mercati.
È quindi giusto votare la propria esistenza a qualcosa di così effimero?
La risposta è no. La vita di un essere umano deve essere composta da una varietà di relazioni che non possono concludersi nel lavoro. La famiglia, gli amici, gli hobby e anche il riposo devono essere importanti.
Perché lavoriamo troppo?
Prima di capire perché abbiamo così tante ore di lavoro sulle nostre spalle, è bene chiarire una cosa. Ogni azienda ha i propri standard lavorativi e ogni persona ha il diritto di decidere come trascorrere il proprio tempo.
Il lavoro è inteso come dovere in un senso molto basilare: se non lavori, non prendi uno stipendio. Se non hai un’entrata fissa, non sai di cosa vivere (a meno che tu non abbia un gruzzolo da parte, cosa che auguriamo a tutti!).
Non c’è niente di male neanche, ovviamente, ad avere piacere a fare il proprio mestiere. Anzi! Confucio diceva: Scegli un lavoro che ti piace e non dovrai mai lavorare un giorno della tua vita.
Vero: ma esiste un limite tra il lavoro come dovere (o piacere) e quello inteso come unica ragione di vita.
Ora: perché molti invece la pensano così? Ci sono due motivazioni principali:
- Retaggio culturale e formativo. Fin dalla prima elementare ci insegnano che ci si può sentire realizzati soltanto se si fa carriera o se si occupa una posizione di prestigio. Studiare è importante, socializzare meno. E così via fino al primo giorno in ufficio.
- In un mercato come quello attuale, dove per ogni posizione aperta c’è una fila lunga chilometri, chi ottiene l’agognato posto sente di dover fare il massimo per poterselo tenere stretto. Anche se questo significa annullare la propria sfera personale.
Il futuro
Finché il mercato continuerà a essere incerto e finché non sarà la stessa società a imparare a dare il giusto peso alle cose, difficilmente la situazione cambierà.
Quello che possiamo fare, nel nostro piccolo, è continuare a dare il massimo sul lavoro, ma cercare di trovare un equilibrio tra le due sfere: perché non si vive di solo lavoro, ma non si vive neanche senza.